La Lancia, lo Specchio, la Freccia e la Corona
Marta "Rosaspina" Melis
Aria innocente e un delicato profumo di rose circondano questa ragazzina minuta dalla pelle verdastra e i capelli ingarbugliati di spine e petali
Bio:
Una vita fa il mio nome era Anna. Anna Mallus. Sono nata a Iglesias, anche se mia madre, Margherita, era di Armungia. Ci trasferimmo a Cagliari quando avevo otto anni per babbo, Gianpiero, che perse il lavoro. Perdemmo gli amici e le frequentazioni, ma ricordo che provai un senso di meraviglia di fronte alla città. Tutto era più grande, i posti più affollati, il traffico più intenso.
Mamma mi portava spesso in un negozio di giocattoli dove ammiravo i pupazzetti dei personaggi dei cartoni che vedevo in tv, e anche se chiedevo a gran voce i più grandi e belli mamma mi diceva che non ce lo potevamo permettere e mi dovevo accontentare dei giocattoli più piccoli e meno costosi. Ricordo che quei pupazzetti erano i miei possedimenti più cari, e li conservavo gelosamente e ordinatamente in una grande scatola sotto la scrivania di una cameretta altrimenti dominata dal disordine.
Mamma cercava sempre di farmi pulire e riordinare tutto. A volte, quando io mi rifiutavo, lo faceva lei al posto mio. “Papà ha avuto una giornata brutta a lavoro” diceva. “Non voglio che quando torna trovi questo macello!”.
Babbo non era così quando vivevamo in paese. Non sgridava la mamma se lei si metteva un vestito troppo corto, nè se io non facevo i compiti. Ricordo che babbo quand’ero piccola mi aiutava a farli, i compiti. Da quando vivevamo in città gliel’avevo chiesto diverse volte di darmi una mano, ma l’unica volta che riuscii a convincerlo aveva un alito cattivo e doveva essere molto stanco perchè non era molto lucido. Non l’avevo mai visto tirare uno schiaffo alla mamma prima di quella sera.
Avevo quindici anni quando scappai di casa. Sentivo i singhiozzi disperati di mia madre venire dalla loro camera da letto, e il suono delle mani di mio padre che si abbattevano con violenza sulla sua pelle. Non sapevo che fare, non sapevo chi chiamare. Mia madre non aveva amiche e non potevo chiamare i miei amici senza dovergli spiegare che lei non aveva i segni sul volto perchè la mensola in soggiorno era troppo bassa. Non so perchè decisi di prendere una delle mie action figures, e non so perchè da una vasta collezione di personaggi da ogni sorta di media occidentale e non, decisi di prendere proprio Scarlet Witch degli X-Men.
Andavo avanti nella notte, con un pugno serrato nella tasca attorno al pezzetto di plastica a forma di strega mutante e l’altro attorno al telefono che non smetteva di vibrare. Per me sarebbe stato un gioco da ragazzi rintracciarne la posizione, ma nè mia madre nè tantomeno mio padre erano abbastanza competenti con la tecnologia. Il suono ronzante della vibrazione è forse la cosa che ricordo più nitidamente di quella sera, mentre sfruttavo un’entrata nascosta nella recinzione del parco che nessuno conosceva.
Sedevo su un tavolo sotto un grande fico a fissare la scritta “Mamma” su uno schermo debolmente illuminato, la luna alta nel cielo e il mio morale sotto le scarpe. Stringevo la riproduzione di Wanda Maximoff talmente forte che l’elmo mi faceva male. Mi feci forza e premetti il bottone verde per prendere la chiamata. Ricordo solo che mi sentii afferrare persi la presa sugli oggetti che avevo in mano, mentre venivo trascinata tra le fronde dell’albero, la voce di mia madre che mi chiamava dallo speaker del telefono e gli occhi del mio giocattolo che mi fissavano con rabbia di plastica.
Mi svegliai quando la prima spina mi trafisse la carne. Il primo e ultimo ricordo nitido che ho è di lei, il gigante dalle orbite vuote che con cura sovratterrena e grazia fluttuante intrecciava gli enormi rami di rose intorno al mio corpo. Prima mi fissò attraverso la schiena, la gende spina che mi lacerava la carne e i polmoni, rendendo doloroso anche solo respirare, poi avvolse il tralcio intorno al mio petto e alla vita, fissandolo alle mani e alle gambe. Non riuscivo a divincolarmi, non riuscivo a chiedere aiuto, riuscivo solo a piangere e a soffrire, mentre ogni movimento faceva penetrare ancora di più le spine nella mia carne.
Il resto è un ricordo vago e sbiadito, di un tempo che è sembrato interminale, confinata in un grande giardino coperto, collegato ad uno sconfinato edificio dallo stile vagamente vittoriano. Il mio corpo stesso iniziava a produrre germogli e spine, che venivano regolarmente e inesorabilmete tagliati via dalla mia carceriera, lasciando ferite che impiegavano settimane a rimarginarsi, mentre la pelle intorno inverdiva e petali, foglie e spine mi spuntavano tra i capelli
Non so dire dopo quanto mi legò a lui, nè ricordo nessun dettaglio del suo aspetto al di là della folta zazzera rosso rame che gli adornava il capo. Ricordo però molto bene il suo corpo martoriato premuto contro il mio, e i due grandi spiedi di metallo che infilò nelle nostre carni per tenerci legati insieme, il sangue di entrambi che grondava e sporcava le immense rose bianche sotto di noi di un rosso cupo e terribile.
Ci parlammo a lungo io e lui, ma non con la voce. Nel nostro stato di agonia e torpore condividevamo un sogno durato anni, un sogno che lottavamo disperatamente per tenere piacevole e indolore, un eco distorto della vita che ci eravamo lasciati alle spalle. Mi mostrò nel sogno la sua vita, la madre che lo abbracciava, la gioia della sua prima chitarra, il vago senso di disagio quando il nonno gli correggeva il portamento, il disappunto del padre di fronte alla bocciatura. E io gli mostrai la mia vita e miei demoni. Nel silenzio confuso e strappato del nostro rifugio onirico non abbiamo mai avuto possibilità di dirci il nostro nome.
L’idea che mi sono fatta in seguito è che la creatura si sia allontanata dal suo dominio per un tempo sufficientemente lungo a indebolire il suo controllo su di noi, perchè venne il momento in cui entrambi eravamo sufficientemente lucidi da scambiare le nostre prime vere parole. Le usai per convincerlo a scappare, se ci fossimo aiutati a vicenda avremmo avuto una speranza. Lo aiutai a sfilare il primo punteruolo e a liberarsi, iniziammo ad armeggiare col pezzo di mettallo che teneva vincolata me, quando sentimmo distintamente una porta aprirsi e chiudersi nell’altra stanza. I nostri occhi si incontrarono per un istante mentre decideva di abbandonarmi al mio destino.
Lo vidi lanciarsi in una fuga disperata quando la creatura entrò nel giardino e con un orrendo ghigno si accorse di cosa stava succedendo. La distrazione diede ironicamente modo a me di finire di liberarmi e fuggire, lasciandomi alle spalle lui e ogni rimpianto.
L’assenza della creatura doveva aver favorito altre fughe, perchè correndo verso il limite del giardino incontrai Marmo e Ifrit, entrambi fuggitivi. è stato in quel momento che ho capito che non era la casa ad essere enorme, ma ero io ad essermi rimpicciolita: entrambi i miei compagni erano ancora a grandezza naturale. ci trovammo di fronte a un enorme muro di pietra, con un intricato bassorilievo a forma di freccia che puntava a una piccola apertura sul fondo, piccola abbastanza perchè ci entrassi solo io. Mi strappai di dosso alcune delle spine di rosa che avevo ancora infilzate nella carne, li punsi con esse e li vidi rimpicciolirsi fino a diventare grandi quanto me, e potemmo così scappare tutti insieme.
Uscimmo da un piccolo vicolo a castello, era giorno.
Ci guardammo in faccia e ci accorgemmo di non avere più le fattezze umane, eravamo qualcos’altro, segno che ciò che ci era successo era reale. Passò di lì un bambino ma non sembrò stupito o spaventato nel guardarci: fortunatamente le altre persone non potevano vedere le sembianze che gli orrori passati ci avevano costretto ad assumere.
Ci separammo lì, non vedevo l’ora di tornare a casa.
Vagai in stato semi-confusionale, i miei sensi non più abituati all’ordinata logica del mondo mortale, ma non so come riuscii a ritrovare l’appartamento della mia famiglia, dove vidi mia madre scendere dalla macchina con ME. Mi allontanai, ancora confusa e incerta di cosa avevo visto.
Mi ritrovai nello stesso parco dove ero stata presa, a fissare l’albero dove mi ero seduta quella notte baciato dai raggi del sole, quando un giovane che passava di là mi fece una foto. Dapprima inorridii pensando che il mio aspetto verdeggiante che non veniva notato dai passanti potesse essere catturato dalla pellicola, ma con mia grande sorpresa vidi che il fotografo aveva occhi scuri sproporzionatamente grandi e un fisico innaturalmente asciutto, e mi rivolgeva un debole sorriso di comprensione.
Si faceva chiamare Prospettico, e mi ospitò a casa sua. Mi diede cibo e un letto dove dormire, mentre lui si sistemava sul divano, e mi aiutò a mettere un po’ d’ordine nella mia surreale esperienza. Quella notte ripensai al mio compagno senza nome e mi ritrovai a desiderare il contatto fisico di un corpo contro il mio. Svegliai Prospettico dal divano e lo accompagnai in camera da letto. Facemmo l’amore.
Nei giorni seguenti mi spiegò la natura delle Fate e degli Artifizi, e mi aiutò a mettere insieme un po’ di documentazione contraffatta per registrare una nuova identità presso il comune, sotto il nome di Marta Melis. Imparai il funzionamento del Libero Dominioe mi fu chiaro che Prospettico non aveva la minima idea dei meccanismi di potere che ci si muovevano dietro. Apparteneva alla Corte dell’Inverno, e anche se la sua presenza mi confortava, e mi affascinava il suo appartamento caotico e pieno di foto appese alle pareti, la sua vita era abbandonata al vuoto e alla malinconia. Decisi che potevo avere di meglio.
Gli dissi che tra noi era finita, che non era lui ma era un mio problema, e che avevo bisogno di trovare me stessa. Il che in effetti è proprio quello che ho fatto. Piantare un coltello tra le scapole del mio Artifizio e vederlo dissolversi in foglie e rami mi ha dato nuova vita. Mi riappropriai di un pezzo della mia collezione, e mi feci assumere da Ifrit nella sua agenzia, la Mille e Una Notte. Mi unii alla corte di Primavera, e facendo leva sulla mia aura da ragazzina indifesa e con la scusa di farmi aiutare ad ambientarmi mi sono avvicinata a diversi contatti, per lo più Fatati vicini per un motivo o per l’altro ai vari membri della corte di Primavera.
Ho affittato un piccolo appartamento a Pirri, che ho tuttora e che tengo maniacalmente in ordine. La parte più mainstream della mia collezione è esposta in un piccolo espositore di vetro vicino all’ingresso, mentre il resto, la parte più personale, è nella stessa scatola in cui la conservavo da bambina. Sepolta, in fondo a tutti gli altri pezzi, una piccola miniatura con occhi arrabbiati di Scarlet Witch.